Centoventi anni di Harley-Davidson. Una lunga storia in cui un ruolo non secondario l’ha giocato un italiano: Carlo Talamo. Fece diventare le Harley un oggetto di moda e di culto
Centoventi anni di Harley-Davidson. Una lunga storia in cui un ruolo non secondario l’ha giocato un italiano: Carlo Talamo. Non secondario perché, prima di lui, il marchio americano in Italia era misconosciuto. Soprattutto, le sue moto erano considerate destrieri da cowboy, pesanti e inguidabili sulle nostre strade; al massimo, stravaganze da gagà per farsi belli al bar.
Nato Carlo Fulvio Talamo Atenolfi Brancaccio di Castelnuovo, fece diventare le Harley un oggetto di moda e di culto. Pubblicitario prestato alla moto, o appassionato di motori prestato al marketing, partì a gennaio 1985 con un piccolo negozio nella Chinatown milanese, dal nome ambizioso Numero Uno: erano i giorni della nevicata del secolo.
Aveva appena rilevato, con un paio di amici, l’importazione di HD dai fratelli Castiglioni. Un magazzino di rottami e un catalogo di moto che in Italia era roba da carbonari: 15 moto vendute nell’85. Ma lui aveva passione, talento e culo: in breve nacque la chimica giusta. L’HD voleva darsi una nuova immagine; lui scriveva libri di piccole poesie a tema motociclistico; era nata la “Milano da bere”, che gli fornì i clienti giusti: yuppie e gente della moda, a cui piaceva sentirsi dire che la loro moto costava tanto perché valeva tanto, fatta di storia, ferro e cromature, non robe futili come quelle che loro vendevano agli altri.
Le Harley riportavano al valore delle cose semplici. E poi te le potevi fare su misura, il che non guastava in un ambiente individualista. Talamo era, come si dice oggi, “di ispirazione”. Le poesie naturalmente diventavano pubblicità: in una delle prime marchiate Numero Uno, lui era seduto su una Softail Springer con la molla della forcella in bella vista; e la chiosa era: “Fermatevi per un istante a pensare. Forse è venuto il momento di tornare alle motociclette”. In un’altra, con una delle prime Sportster, chiosava: “Voglio una moto che possa crescere con me. Non voglio più avventure di una settimana. Cerco stabilità”. Brevi testi su fondo nero, con i marchi in fondo. Sarebbero stati perfetti per Instagram.
notizia da: motociclismo.it
Centoventi anni di Harley-Davidson. Una lunga storia in cui un ruolo non secondario l’ha giocato un italiano: Carlo Talamo. Non secondario perché, prima di lui, il marchio americano in Italia era misconosciuto. Soprattutto, le sue moto erano considerate destrieri da cowboy, pesanti e inguidabili sulle nostre strade; al massimo, stravaganze da gagà per farsi belli al bar.
Nato Carlo Fulvio Talamo Atenolfi Brancaccio di Castelnuovo, fece diventare le Harley un oggetto di moda e di culto. Pubblicitario prestato alla moto, o appassionato di motori prestato al marketing, partì a gennaio 1985 con un piccolo negozio nella Chinatown milanese, dal nome ambizioso Numero Uno: erano i giorni della nevicata del secolo.
Aveva appena rilevato, con un paio di amici, l’importazione di HD dai fratelli Castiglioni. Un magazzino di rottami e un catalogo di moto che in Italia era roba da carbonari: 15 moto vendute nell’85. Ma lui aveva passione, talento e culo: in breve nacque la chimica giusta. L’HD voleva darsi una nuova immagine; lui scriveva libri di piccole poesie a tema motociclistico; era nata la “Milano da bere”, che gli fornì i clienti giusti: yuppie e gente della moda, a cui piaceva sentirsi dire che la loro moto costava tanto perché valeva tanto, fatta di storia, ferro e cromature, non robe futili come quelle che loro vendevano agli altri.
Le Harley riportavano al valore delle cose semplici. E poi te le potevi fare su misura, il che non guastava in un ambiente individualista. Talamo era, come si dice oggi, “di ispirazione”. Le poesie naturalmente diventavano pubblicità: in una delle prime marchiate Numero Uno, lui era seduto su una Softail Springer con la molla della forcella in bella vista; e la chiosa era: “Fermatevi per un istante a pensare. Forse è venuto il momento di tornare alle motociclette”. In un’altra, con una delle prime Sportster, chiosava: “Voglio una moto che possa crescere con me. Non voglio più avventure di una settimana. Cerco stabilità”. Brevi testi su fondo nero, con i marchi in fondo. Sarebbero stati perfetti per Instagram.
notizia da: motociclismo.it
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